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Rainbow washing: l’inclusione che si ferma alla vetrina

Rainbow washing: l’inclusione che si ferma alla vetrina



D’improvviso i loghi delle aziende si colorano di arcobaleno. Spot pubblicitari con coppie LGBTQ+, merchandising “inclusivo”, post sui social che gridano Love is Love.
Ma a guardare meglio… qualcosa stona.

Quanti di questi gesti sono frutto di un impegno reale e quanti, invece, di una strategia di marketing ben confezionata?

Benvenuti nel fantastico mondo del rainbow washing!

Cos’è il rainbow washing?

È l’equivalente arcobaleno del greenwashing. In pratica: un’azienda adotta i simboli del Pride per trasmettere un’immagine di inclusività, senza però mettere in campo azioni concrete a favore delle persone LGBTQ+ — soprattutto sul luogo di lavoro.

È un po’ come indossare la maglietta con la scritta Equality… mentre si discrimina chi la vive davvero, ogni giorno, sulla propria pelle.
I segnali che dovrebbero destare allarme sono diversi, ne elenchiamo solo alcuni: Il logo si tinge di arcobaleno… ma l’azienda non ha una policy antidiscriminazione aggiornata; l’Azienda lancia la sua linea Pride ma prodotta in Paesi dove i diritti LGBTQ+ non esistono… Oppure supporta il Pride a parole ma finanzia politici o organizzazioni apertamente omofobe.

Perché il rainbow washing è un problema?

La risposta è semplice: perché trasforma l’identità in uno strumento di marketing e banalizza battaglie fatte di discriminazioni, licenziamenti, insulti, armadi forzati e armadi svuotati con fatica.
E soprattutto perché crea una falsa percezione: quella che “ormai i diritti LGBTQ+ sono garantiti, quindi va tutto bene”. Spoiler: no, non va tutto bene.
Anche se si vedono loghi arcobaleno, il 39 % dei lavoratori LGBTQ+ in UK e USA continua a nascondere la propria identità, e in Irlanda oltre la metà dichiara di aver subito discriminazioni o microaggressioni sul lavoro (https://www.lifewire.com/the-growing-movement-to-fix-discrimination-against-lgbtqia-tech-workers-6829622?utm_source=chatgpt.com). I benefit “rainbow friendly” (es. cure trans-inclusive, parentalità, fertility support) non sono roba da Pride: il 70 % dei dipendenti LGBTQ+ li ritiene determinanti – creano appartenenza e fanno restare le persone

E invece, cosa può (davvero) fare un’azienda?

Se un’impresa vuole essere alleata e non solo arcobaleno-friendly per un mese, può iniziare da qui:

  • Formazione interna su diversità, equità e inclusione (DEI), con un focus anche sulle tematiche LGBTQ+.
  • Ascolto attivo: creare spazi sicuri dove le persone possano raccontarsi, proporre, confrontarsi.
  • Comunicazione responsabile: non solo mostrare, ma raccontare azioni, progetti, risultati. E anche i limiti, perché la trasparenza è già un passo avanti.

Unilever e Accenture puntano su ERG e formazione continua; IKEA, Meta, H&M e Johnson & Johnson offrono benefit che toccano diritto alla salute, genitorialità e transizione. Insieme a HSBC, EY, P&G e Cisco, dimostrano che per essere alleati autentici l’arcobaleno non basta: serve cultura, struttura e misurazione. Se pensi che queste politiche siano difficilmente attuabili nella concretezza delle piccole-medie imprese, puoi iniziare dai nostri consigli!

Per concludere

Il problema del rainbow washing è tutto qui: ridurre l’impegno per i diritti LGBTQ+ a una manciata di post colorati a giugno. Ma le persone non sono cieche. Clienti, dipendenti, collaboratori sanno distinguere quando dietro una bandiera arcobaleno c’è solo marketing, e quando invece c’è una cultura aziendale davvero inclusiva.

Essere davvero alleati della comunità LGBTQ+ non significa spendere milioni, né sbandierare una “DEI policy” astratta. Significa fare scelte coerenti, continue e coraggiose:

Un’azienda inclusiva lo è tutti i giorni dell’anno, non solo durante il Pride. Perché una cultura inclusiva non si costruisce con un logo colorato, ma con rispetto, coerenza e responsabilità. E perché le persone LGBTQ+ non sono target di mercato — sono parte della tua forza lavoro, del tuo pubblico, del tuo futuro.

Se vuoi che la tua azienda sia credibile, comincia da gesti veri. Piccoli, magari. Ma veri.


Marta Massimi

Talent Acquisition Manager

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