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Shadow AI: quando l’intelligenza artificiale entra in Azienda… dalla porta sul retro

Shadow AI: quando l’intelligenza artificiale entra in Azienda… dalla porta sul retro



Negli open space (reali o virtuali) delle aziende italiane si sta diffondendo un nuovo fenomeno: l’uso “clandestino” dell’intelligenza artificiale da parte dei dipendenti.
No, non stiamo parlando di hacker o di fantascienza aziendale: parliamo di persone normalissime — impiegati, recruiter, marketing manager, amministrativi — che usano ChatGPT, Midjourney o Copilot “di nascosto”, per scrivere una mail più chiara, preparare una presentazione o generare un report in metà tempo.

Benvenuti nell’era della Shadow AI, l’intelligenza artificiale che lavora sotto traccia, spesso senza che l’azienda lo sappia (o voglia saperlo).

Tutti usano l’AI. Ma non tutti lo dicono.

Secondo un recente report del Times of India, oltre la metà dei dipendenti americani utilizza strumenti di AI generativa senza autorizzazione o policy interne chiare.
In Italia mancano ancora dati sistematici, ma basta ascoltare una pausa caffè o una riunione su Teams per capire che il trend è lo stesso: l’AI è entrata nei flussi di lavoro quotidiani in modo informale, spontaneo e spesso “borderline”.

Perché succede?
Semplice: l’AI aiuta.
Fa risparmiare tempo, aumenta la precisione, libera spazio mentale. Ma c’è un problema: le aziende non sempre sono pronte. Mancano linee guida, strumenti ufficiali o una cultura digitale che accompagni l’uso consapevole.
Risultato? Le persone si arrangiano.

Shadow AI: rischio o opportunità?

Da un lato, la Shadow AI rappresenta un rischio reale.
Senza policy chiare, i dipendenti possono:

  • condividere dati sensibili con strumenti esterni non sicuri,
  • generare contenuti con bias o informazioni errate,
  • creare dipendenza da automazione senza controllo di qualità.

Dall’altro lato, però, ignorare il fenomeno non serve a nulla… Anzi, è un’occasione persa!
Perché se i dipendenti stanno già usando l’AI, significa che vedono un potenziale e stanno cercando di ottimizzare il proprio lavoro — forse prima ancora che l’azienda glielo chieda.

Da paura a policy: come gestire (bene) la Shadow AI

Il primo istinto di molte aziende, davanti alla scoperta che i propri dipendenti usano ChatGPT o altri tool “di nascosto”, è la paura.
Paura di fughe di dati, di errori incontrollabili, di dipendenti che delegano troppo alla macchina.
Ma bloccare tutto non serve: è come chiudere Internet nel 2001.
Il punto non è se l’AI entrerà in azienda, ma come.

La gestione della Shadow AI non è (solo) un tema di sicurezza informatica, ma una questione di cultura organizzativa.
Serve equilibrio: proteggere l’azienda senza spegnere la spinta all’innovazione.

Ecco cinque leve concrete per farlo.

Ascoltare per capire, non per punire

Molti dipendenti usano l’AI “in ombra” perché temono sanzioni o giudizi (“se il mio capo sa che ho chiesto a ChatGPT di riscrivere la mail, penserà che non so scrivere?”).
Eppure, proprio chi sperimenta per primo può diventare un prezioso ambasciatore interno di innovazione.
Avviare momenti di ascolto o survey anonime sull’uso reale dell’AI è il modo migliore per capire dove si annida il potenziale — e i rischi — senza creare un clima di sospetto.

Dalla policy al “patto d’uso”

Molte aziende stanno riscrivendo le proprie policy IT, ma il linguaggio resta spesso troppo tecnico o proibitivo.
Serve qualcosa di diverso: un patto d’uso condiviso, scritto in modo chiaro, pratico e comprensibile a tutti.
Non solo cosa non fare, ma anche cosa si può e si deve fare.
Esempio: “puoi usare un tool AI per migliorare un testo, ma non per elaborare dati sensibili o fornire informazioni su clienti o colleghi”.
Una buona policy di AI aziendale non mette paletti, ma dà una cornice di fiducia e responsabilità.

Formazione: da “come si usa ChatGPT” a “come si pensa con l’AI”

Il rischio non è che i dipendenti usino troppo l’AI, ma che non sappiano quando smettere.
Serve una formazione che vada oltre la parte tecnica (prompt, tool, comandi): occorre insegnare pensiero critico, verifica delle fonti, interpretazione dei risultati. L’obiettivo non è “automatizzare” il lavoro, ma aumentare la consapevolezza digitale.
Un bravo professionista del futuro non sarà quello che “non usa l’AI”, ma quello che sa usarla bene e sa dove non usarla affatto.

Ufficializzare gli strumenti

Il modo migliore per ridurre la Shadow AI è portarla alla luce.
Offrire tool approvati — versioni aziendali di ChatGPT, Copilot, Claude o Jasper, con gestione sicura dei dati — aiuta i dipendenti a lavorare meglio senza dover nascondere nulla.
Questo approccio comunica fiducia e lungimiranza: “non temiamo la tecnologia, la governiamo insieme”.
Inoltre, consente all’azienda di monitorare i flussi di utilizzo e imparare da essi.

Creare cultura, non solo regole

La Shadow AI non nasce dal caos, ma dal vuoto.
Dove l’azienda non comunica una visione chiara sull’uso dell’intelligenza artificiale, le persone se la costruiscono da sole.
Per questo serve una cultura che parli di AI come competenza collettiva: un linguaggio comune, esempi virtuosi, momenti di confronto fra team.
Più che “controllare”, significa educare all’etica digitale, rendere l’AI parte del lavoro quotidiano — non un segreto da tenere nel cassetto.

L’AI non va “tenuta fuori” dall’azienda. Va fatta entrare bene.

Il fenomeno della Shadow AI è, in fondo, un sintomo positivo: dimostra che le persone vogliono sperimentare, innovare, migliorarsi.
Il compito delle aziende non è spegnere questa spinta, ma canalizzarla in modo sicuro e consapevole.

Perché in un mondo in cui l’intelligenza artificiale è ovunque, l’unico rischio reale è far finta che non ci sia.


Marta Massimi

Talent Acquisition Manager

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